Acquacoltura Sostenibile: – Le nicchie dell’ allevamento di pesci
A Natale si riscopre l’Anguilla
Le festività di Natale e Capodanno si avvicinano e in cucina si inizia a far posto all’anguilla (o capitone). Protagonista di diverse ricette regionali, simbolo di ricchezza e prosperità per le sue carni grasse e polpose, fritta o in umido questo pesce rappresenta una nicchia dell’acquacoltura che annualmente viene riscoperta dal grande pubblico; anche se i veri intenditori, ristoranti fine dining per primi, non l’abbandonano mai. «Ormai possiamo dire che il consumo di anguilla ha un andamento abbastanza stabile nel corso dell’anno. La ripresa del canale Horeca dopo la crisi pandemica è stato un fattore di normalizzazione e le festività che si avvicinano, nonostante i grandi allarmi, saranno all’insegna della convivialità, dello stare insieme e del mangiare bene», prevede Paolo Colombo, titolare dell’Azienda Agricola Giuseppe Colombo che ha avviato l’allevamento di anguille nel 1970 a Robecchetto con Induno (Mi) utilizzando l’acqua che sgorga abbondante in quelle zone poste all’interno del Parco del Ticino.
Insomma, la crisi dei consumi, se ci sarà, non rovinerà il menu delle feste. Né inciderà più di tanto su quei mercati in cui l’anguilla viene consumata durante tutto l’anno. Parliamo, innanzitutto, delle zone costiere in Veneto, Emilia- Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Sardegna e nelle zone limitrofe alla Laguna di Orbetello e al Lago di Lesina. Tutte zone caratterizzate dalla presenza di lagune naturali di acqua salmastra in cui viene ancora esercitata la pesca professionale (che avviene proprio nei mesi di novembre e dicembre) e l’allevamento estensivo. «Non vanno però dimenticato che l’anguilla è molto diffusa anche nelle zone interne – precisa Colombo – Sugli Appennini non è raro trovare qualche ristorante specializzato. E questo ha a che fare con il metodo di conservazione del pesce, che va sempre consegnato vivo, e per molto tempo ha rappresentato la prima fonte di pesce fresco per quelle regioni lontane dal mare».
Per molto tempo significa dai tempi degli antichi romani. Furono loro i primi a dare avvio alle prime forme di allevamento delle anguille che venivano catturate nelle lagune dove si alimentavano con pesci di piccole dimensioni. Al giorno d’oggi, l’allevamento estensivo prosegue con lo stesso schema, utilizzando per l’accrescimento le anguille pescate sotto misura. La riproduzione in cattività che servirebbe per dare più slancio agli stabilimenti intensivi, infatti, è ancora poco diffusa e viene praticata solo da alcuni centri di ricerca universitari che stanno portando avanti la costruzione di un modello che si possa riproporre anche a livello aziendale. «In pochi anni la ricerca ha fatto grandi passi avanti in termini di riproduzione delle anguille. Ad oggi, gli esperti riescono a garantire le fasi di fecondazione e nascita delle larve. Manca un passaggio stabile all’avannotto che permetterebbe poi il suo impiego nelle vasche di allevamento sulla terra ferma», annuncia Colombo. Per essere commercializzabile, a seconda del mercato di riferimento, l’anguilla va poi fatta crescere fino a taglie che variano dai 200 ai 500 grammi.
Superare questo ostacolo rappresenterebbe anche un passo avanti per la sostenibilità dell’intero settore. Non solo a livello ambientale ma anche di business. Il tutto in attesa di trovare una maggiore convivenza fra sfruttamento commerciale della risorsa e insidie naturali. «L’anguilla ha risentito, e risente tutt’ora, dell’intervento umano. Tra i vari fattori penalizzanti si ricordano la pesca intensiva, l’immissione in acqua dolce di specie alloctone predatrici come i siluri, la presenza sempre maggiore di uccelli ittiofagi come i cormorani e, soprattutto, la costruzione di barriere architettoniche insormontabili quali dighe e chiuse», spiega Colombo. Su questo, la Comunità europea ha promosso negli ultimi anni l’implementazione di diverse misure a salvaguardia dell’anguilla europea (come la costruzione di scale di rimonta permettendo al pesce di superare le barriere architettoniche) così da rendere possibile il ripopolamento degli habitat naturali tipicamente occupati dalla specie (come i fiumi interni).
Innovazioni che puntano ad aumentare il volume di produzione che potrebbero fare da volano a un ampliamento della commercializzazione dell’anguilla. Attualmente, infatti, fatti salve le settimane prima di Natale, è difficile reperire l’anguilla al supermercato. Culturalmente e storicamente, questo pesce viene consegnato e acquistato vivo. «Non il massimo per una signora che si ferma davanti il banco pescheria fra una spesa e l’altra», ammette Colombo. Una soluzione potrebbe essere rappresentata dal prodotto porzionato e congelato, ma si tratta di un arma a doppio taglio: «Da un lato, sicuramente noi produttori potremmo ampliare il nostro portfolio di clienti. Ma, dall’altro, se passasse questo cambio culturale dal prodotto vivo a quello congelato rischieremmo di perdere il nostro vantaggio competitivo rispetto al prodotto proveniente dall’estero», avverte Colombo. Anche perché, nel frattempo, il settore sta camminando su un crinale dal margine molto sottile: «A causa dell’aumento dei costi energetici e di quelli legati al mangime, il costo medio all’ingrosso dell’anguilla al chilo è aumentato di circa il 15% nell’ultimo anno (per un totale che varia dai 15 ai 17 euro al chilo). Crescita che tuttavia ancora non copre l’innalzamento dei prezzi di produzione e rischia di rendere l’anguilla solo un prodotto da veri intenditori. A meno che non sia ogni giorno Natale.